SCACCO MATTO AL RE “NERO”. Dalla Dia al Ros, un’inchiesta nata zoppa/parte 2

di Alessandro Ambrosini

Sono otto fermate. Da Re di Roma a Lepanto, chilometri di metropolitana che sgusciano come serpenti nel ventre della Capitale. Flussi di persone, volti, storie che si perdono oltre i tornelli per salire o scendere come formiche da scale mobili su cui gocciola acqua sporca. E’ tardi. Non ho tempo di guardarmi intorno, devo scendere veloce per prendere la prima metro che arriva. La sento. Non dal rumore ma dal vento gelido che la preannuncia sulla banchina strapiena di scolaresche in gita e frementi impiegati che si dirigono nelle parti nobili della città. Mi aspetta il “Magistrato” (lo chiamerò così per discrezione), il mio “mentore” nella giungla del crimine, il mio garante nell’intricato mondo della giustizia. Un vero esperto del settore in cui ha operato Carminati per anni, la Banda della Magliana. Devo intervistarlo,nessuno meglio di lui conosce quei mondi, quei codici non scritti in cui si attorciglia la mala romana.

Quando riemergo il cielo già piange e mi infilo il cappuccio in testa. Mi guardo intorno e dall’altra parte della strada vedo un volto che mi sembra conosciuto. Mi fermo, sposto lo sguardo e mi metto vicino all’entrata di un bar. Devo riguardarlo, devo capire dove e come l’ho visto senza farmi notare. Giro piano la testa di 180 gradi per riuscire a individuarlo senza soffermarmi su di lui. E’ alto circa un metro e ottanta, stempiato, con lunghi baffi e una corporatura magra coperta da un impermeabile nero. Avrà circa 65 anni e porta l’ombrello mentre l’altra mano è in tasca. Devo concentrarmi. Ripasso lo sguardo e il suo volto punta nella mia direzione. Ora ricordo, si. Ricordo tutto. E’ Marcello Neroni, uno della Banda. O almeno ci assomiglia molto. E tutto torna in mente mentre abbasso lo sguardo alzando la cerniera del giubbetto fino al naso. Non voglio che mi veda, se è lui. 

Neroni è stato un socio di Renatino De Pedis, uno dei pochissimi ad avere una mente “imprenditoriale”, di quella che fu una vera holding del crimine tra la metà degli anni 70 e la metà degli anni ’90. Neroni è un cravattaro, un biscazziere, un uomo per tutte le stagioni. Infiltrato o infame, a seconda della barricata, uno che giocava con i servizi segreti deviati o “barbe finte”, come si usava chiamarli all’epoca. Un criminale vero, sulla via della pensione. Ma, come tutti quelli che vengono dalla Bandaccia, smettono di essere letali come serpenti, solo da morti.

Come tutti i criminali di spessore romani non girano nelle periferie, come altri aveva la sua base nelle vicinanze delle Istituzioni. Quasi un modo per irridere lo Stato, o per testimoniarne la vicinanza da parte di qualche apparato. Neroni aveva una sala giochi con biliardi e slot machine, di quelle che puoi vedere nei film poliziotteschi anni ‘70. Posizionata, a poche decine di metri da uno dei palazzi  dove risiedono i servizi segreti e il vecchio centro operativo della Dia, in via Cola di Rienzo. Il punto giusto per la persona sbagliata secondo logica, ma non per lui. L’avevo incontrato qualche anno prima e lui fu il mio battesimo del fuoco per quanto riguarda i miei incontri con la mala romana e i suoi ex sodali. Almeno sulla carta. Ma questo è un capitolo diverso.

Mentre percorro a piedi la strada che mi porta a Piazza Cavour, la mente sembra fermarsi per regalarmi un déjà vu. Mi sembra di rivivere esattamente gli stessi momenti di una sera d’inverno. Esattamente il 14 Dicembre del 2012.

DUE ANNI PRIMA…

Nel buio di un tardo pomeriggio, sotto una pioggia fastidiosa, percorrevo la stessa strada. Tra ombrelli e persone che con passo veloce uscivano dagli uffici. Nello zaino un computer e nella tasca una chiavetta usb. Era piena di foto e schemi che avevo ricavato da mesi di indagini su alcuni “calabresi” e si un filone criminale che portava da corso Francia, regno di Massimo Carminati, a Primavalle, il regno di Salvatore Nicitra. Quest’ultimo, ex uomo di raccordo tra la Banda della Magliana e Cosa Nostra, per quanto riguardava il traffico di stupefacenti. Un “pezzo grosso”, che solo anni dopo sarà riconosciuto anche dalla stampa mainstream come “il quinto Re di Roma”.

Quella sera faceva uno strano effetto camminare tra le luci di bar e negozi e, contemporaneamente, alzare lo sguardo e vedere la maestosità dei palazzi. Roma è sempre stata uno scenario criminale ai miei occhi, l’ho sempre vissuto così. Nelle mie mille vite, non ero mai venuto a Roma da turista. Da metà anni ’90, ho sempre vissuto situazioni che si possono definire  oscure e misteriose. Non ho mai camminato senza guardare  chi avevo davanti o dietro. Ero stato chiuso per ore nella casa di una persona che non conoscevo e che non mi voleva conoscere, con le tapparelle abbassate in pieno giorno, aspettando qualcuno che mi portasse a riunioni “carbonare”, tra ex personaggi dell’eversione, avvocati e “infiltrati” dei carabinieri (questo lo scoprii anni dopo). Avevo rischiato che degli incontri si trasformassero in “trappole alla romana”, dove sai quando vai, ma non sai dove e come puoi finire. Insomma, la Capitale per me è stata adrenalina, sempre.  Quella sera del 2012, quando entrai nell’ufficio del “Magistrato”, dopo aver passato il controllo della scorta, sembrò che il tempo si fosse fermato. Con le pareti antiche, i finestroni altissimi, i tendaggi pesanti, il mobilio in legno massiccio e una melodia di musica classica di sottofondo. Estrassi il portatile, aprii i file che avevo preparato e iniziai a spiegare al sostituto procuratore tutto quello schema che partiva  da una storia di minacce, di avvertimenti e soprusi, subiti da una concessionaria sulla Cassia, e che finiva per parlare di vigili urbani, avvocati, persone che lavoravano nei municipi, arrivando a Riccardo Brugia ( luogotenente di Carminati) e finendo con i nomi di Carminati e Nicitra. Una piramide costruita pezzo per pezzo. Una piramide che parlava di quanto certi personaggi fossero a stretto contatto con il mondo reale. Non era una storia di rapine o di spaccio, era la coabitazione con la normalità, con il quotidiano. Il magistrato, a cui avevo già accennato al telefono tutta la storia mi chiese se avevo problemi a incontrare un funzionario della Dia. Risposi sorridendo che l’unico problema che riscontravo era un teschio che mi fissava da una mensola, con una serie di piccoli gufi intorno.

Di lì a poco, una figura in giacca e cravatta, magro e con un forte accento meridionale entrò in quell’ufficio, con il passo spedito e lo sguardo di chi aveva appena ingoiato un rospo.

Dopo averci salutato prese il numero dell’Espresso e lo sbattè sulla scrivania. La copertina era quella dei “Quattro Re di Roma”, con i volti di Michele Senese, Casamonica, Carmine Fasciani e lui, er cecato: Massimo Carminati, in una vecchia foto di repertorio. Il funzionario si sedette e disse: “I “cugini” ci hanno fregato il lavoro di anni – riferendosi ai carabinieri del Ros – hanno “bruciato” cimici, gps, intercettazioni”. La sua rabbia non gli fece notare che ero presente a quella conversazione, o forse solo per il fatto che ero in quell’ufficio, era tranquillo sulla mia discrezione. Lì ci entravano solo criminali per essere interrogati, o persone di grande affidabilità. L’ufficio del “Magistrato” non è mai stato un porto di mare. Era un luogo sacro e dissacrante allo stesso tempo. Dipendeva chi sedeva nella poltroncina davanti a lui.

Era a fine 2012, il procuratore generale di Roma era diventato Giuseppe Pignatone. Un magistrato che aveva operato sia in ambito mafioso in Sicilia, che nella Calabria ‘ndranghetista. Si portava con sé rumors di vario genere e soprattutto la caratteristica che affidava le deleghe di indagine, quasi esclusivamente al Ros, il reparto operativo speciale dei carabinieri. Un corpo d’elitè, con molte luci e molte ombre. Dopo pochi mesi dal suo insediamento, lo confermò nei fatti. Come un copione già scritto.

Era fine 2012, Carminati era sotto inchiesta da parte della Dia che aveva microfonato tutto Corso Francia, il negozio di jeans della moglie di Carminati, la macchina che lui usava, i bar nelle vicinanze dei luoghi che frequentava.

L’articolo dell’Espresso, fu il segnale del cambio della guardia con il Ros e l’inizio di un countdown per Carminati. Lo si poteva intuire dalle “fonti” che non citava Lirio Abbate nel suo articolo. Sia il funzionario che il magistrato lo capirono al volo e si chiusero in un comprensibile silenzio.

Ci mettemmo a discutere del mio materiale e la prima cosa che disse il funzionario fu: “Molto interessante, sei arrivato dove siamo arrivati noi. Come hai fatto?” Non risposi subito, dovevo riflettere. Optai per una espressione del viso eloquente, di chi non avrebbe mai detto un nome e gli dissi che avevo delle fonti riservate. Non cercò di forzarmi, sarebbe stato inutile. Uscimmo dal “santuario” e mi accompagnò per un pezzo di strada verso la metro. Si raccomandò di non dire niente a nessuno di quell’incontro e mi chiese di non pubblicare ciò che avevo trovato. La pioggia aumentò, diventando battente. Lo lasciai senza una risposta. In un’ambientazione che poteva ricordare la morte di Samurai nel film Suburra. Quando una città è una scenografia naturale, per tutto quello che può racchiudere retroscena e crimine. 

Sono davanti al portone del palazzo dove devo incontrare il “Magistrato”. Mi accendo una sigaretta, voglio rilassarmi prima di incontrarlo. Guardo il Tevere e penso a questo deja vu, a una storia mai nata. Penso che l’inchiesta di Mondo di Mezzo, ora Mafia Capitale per tutti i giornali, è nata senza uno dei protagonisti, Salvatore Nicitra. Penso a come sarebbe cambiata l’ordinanza se fosse stato inserito pure lui, tra le decine di nomi sotto inchiesta e arrestati. Solo anni dopo, il “siciliano” sarebbe stato arrestato e processato. Ma il futuro non è adesso.   

Lascia un commento