TRAFFIC – PIOGGIA SPORCA SULLA CAPITALE

di Alessandro Ambrosini

“La mia Roma a mano armata” parte da Ostia. Dal punto di vista temporale avrei dovuto iniziare dai quartieri della Capitale. Ma tutto questo ha un senso. E’ per far capire non solo le origini di una delle piaghe che attanaglia Roma da sempre. E’ un modo per spiegare la concentricità del male stesso. Di come si propaga all’interno della “Città Eterna”.

Partiremo da Ostia  e da Fiumicino, con una delle inchieste che renderanno l’idea di come i confini tra il bene e il male si sfiorano, tanto da intrecciarsi. Un leitmotiv che, nella mia esperienza di strada romana, come leggerete, sarà una costante. Dove la criminalità organizzata è talmente presente da sentirne il respiro, il pericolo di infiltrazione nei tessuti sani della società e nelle forze dell’ordine, è più facile. Meno imbarazzante per chi abbraccia il male. Roma, oltretutto, come tutte le grandi città, è simbolo anche di una giungla umana che stritola, che ti porta a sopravvivere. Non a vivere. Motivo per cui, chi vuole “arrivare più in fretta degli altri” ha meno remore nel cercare la scorciatoia.

Questa che leggerete è un’inchiesta del 2014. Con tutti i limiti temporali . Ma che rappresenta uno spaccato poco conosciuto. Dimenticato in molti casi. Mai scritto in altri. Nomi e volti che ritroverete altre volte in questo percorso. Nomi e volti che, incredibilmente, hanno faticato a trovare spazio nella cronaca mainstream. Che venivano sussurrati, a volte nascosti, a volte evitati. Molti nomi che troverete hanno finito il loro percorso di pena. Ma quello che hanno fatto rimane nel tempo. Come nel tempo rimane la loro colpa. E la cronaca non è Giustizia. E’ storia.   

Frau ! Paolo Frau. L’uomo, che aveva già messo la chiave nella serratura della macchina si girò. Fece appena in tempo a vedere la canna scura di una calibro 38. Era lì, puntata verso di lui, in tutta la sua magnificenza omicida. Una sinfonia di colpi partì e l’ultimo sguardo di quell’uomo che era stato, per anni, il console nel Litorale, della Banda della Magliana, si spense per sempre. Era il 18 ottobre del 2002, in via Francesco Grenet. Ostia.

E’ da qui che partì la mia inchiesta sul narcotraffico a Fiumicino, oltre dieci anni fa. Da quei colpi in faccia che cancellarono passato, presente e futuro di un mondo troppo lontano per resistere agli squali giovani e forti che venivano da altri mari, da altre coste.

Le storie che riguardano la criminalità romana, non è un caso, trovano sempre origine dalla Banda della Magliana. Direttamente o indirettamente da decenni. E non è mai una storia “pulita”. E’ sempre una storia che si macchia di sangue.

Questa è una storia che ha tratti che potrebbero sembrare assurdi: partire dal “mare di Roma” per parlare di aerei provenienti dal Sudamerica, con valige cariche di droga. Potrebbe sembrare fuorviante raccontare la morte  di un criminale di vecchia data, quando  l’inchiesta parla di agenti e militari “infedeli” della Polaria e della Guardia di Finanza nel nuovo millennio. Ma tutto ha un senso, tutto ha inizio in quel lungomare, in quella Piazza Anco Marzio che darà il nome all’operazione monstre più inconcludente e dispendiosa della storia della Squadra Mobile romana.

Nel salotto buono di un Municipio, che conta nel periodo invernale 200.000 abitanti, si decisero, metro per metro, i confini criminali dei dodici chilometri che separano Ostia da Fiumicino.

Per capire quello che successe nel primo decennio del 2000,  dentro l’aeroporto Leonardo Da Vinci, bisogna partire da chi, quei carichi di cocaina, li comprava, ne organizzava il trasporto e li riceveva. Bisogna capire chi e come poteva essere gestito l’equilibrio tra organizzazioni diverse, la difesa nei confronti delle forze dell’ordine che, solo in alcuni casi sono arrivati vicini a scoprire il Sistema. Tornare su quei passi, significa capire anche il presente. Non si può pensare di vivere l’oggi non conoscendo l’origine.

Dopo la morte di “Paoletto”

La morte di Paolo Frau non era una morte che poteva spostare l’economia criminale di Ostia, era più simbolo che business. Era il cambio della guardia, l’acquisizione di potere definitiva senza trovare troppi ostacoli da parte di chi viveva su una storia passata. Almeno a Ostia.

In quel momento, sebbene in forte difficoltà economica, come testimoniano delle intercettazioni tra Vincenzo De Angelis e Guido Centanni, due sodali di Frau, la figura dell’ex luogotenente di Danilo Abbruciati era comunque rispettata e probabilmente ingombrante.  Gestiva il parcheggio di Cineland, una multisala con 1500 posti  auto, una struttura che vide soci gli stessi titolari del Bar Sisto in Piazza Anco Marzio ( Recentemente chiuso definitivamente). Un locale centralissimo e fulcro di Ostia. Che fu al centro della cattura di un personaggio di spicco nell’ambito del narcotraffico con il Sudamerica. Fu infatti intercettando il telefono del bar che si arrivò a individuare Vincenzo Pompei, a San Paolo del Brasile, uomo di spicco del clan Senese che si suicidò in carcere qualche anno fa in una prigione carioca.

Mentre due squadre della Mobile di Roma e una della Polaria erano impegnati nelle indagini per trovare nomi e mandanti dell’esecuzione di Frau, la galassia criminale stava cercando  l’equilibrio che serviva per continuare a operare e aprire nuove vie criminali. Vie che riguardavano sia il traffico di stupefacenti ma anche il riciclaggio di una quantità notevole di denaro.

Ma chi sono i capi di questa Suburra?

Clan Fasciani: Il dominus è Carmine Fasciani,anche lui proveniente da una costola della Banda della Magliana. Il capoclan è di Capistrello, in provincia dell’Aquila. Iniziò ad Ostia l’iter criminale controllando il giro di soldi dati “a strozzo”. Lo faceva dalla sua panetteria, una sorta di marchio per chi proveniva dalla Banda nata da “er fornaretto” Giuseppucci. Cerca comunque l’indipendenza e col tempo, la forte “grana criminale” e i buoni rapporti con il boss camorrista Michele Senese, lo eleva a una sorta di “sindaco occulto” di Ostia. Tutto o quasi passa per le sue mani: dal traffico di stupefacenti ai chioschi sul lungomare,dai locali della movida locale al gioco d’azzardo, alle locazioni delle case popolari. Arresti e sequestri non l’hanno mai fermato veramente. Dopo l’operazione Nuova Alba del 2013 è in stato di detenzione in regime di 41 bis.

Clan Senese: Michele Senese è uno dei re di Roma per quanto riguarda il crimine. Il camorrista di Afragola è ormai “romano” d’acquisizione visto i decenni che son passati dal suo arrivo nella Capitale. Comanda tutto il quadrante Sud-est di Roma in coabitazione con il clan dei Casamonica. E’ chiamato ‘o pazzo per i suoi innumerevoli trascorsi negli Opg d’Italia e per la facilità con cui è riuscito a farsi dare i ricoveri in cliniche “amiche”, oasi da cui controllava i suoi affari senza nessun problema. Dal traffico di stupefacenti al gioco d’azzardo dei videopoker, è “sempre persona con cui bisogna fare i conti” nell’ambito della mala a Roma. Attualmente è detenuto per narcotraffico e per l’omicidio di Giuseppe Carlino, uno dei boss della Banda della Maranella.

Clan Triassi: La mafia sul Litorale era rappresentata da loro. Lo diciamo al passato perché, nel tempo, il loro potere a Ostia è sensibilmente diminuito col passare degli anni e con la gambizzazione di uno dei due fratelli. Vincenzo e Vito Triassi, quando sono sbarcati sul lungomare romano erano la lunga mano della potente famiglia dei Cuntrera Caruana. Dal dividersi, con gli altri gruppi egemoni, la grossa fetta della droga, della gestione dei chioschi e dei videopoker, sono passati a trattare solo il traffico di armi. Dopo la gambizzazione di Vito , nel 2007, tutto cambiò. Attualmente Vito Triassi è in stato di detenzione in regime di 41 bis. Significativa la foto che abbiamo pubblicato, tempo fa, con l’inaugurazione di una zona balneare per disabili. Oltre al sindaco di Roma, al tempo Walter Veltroni, c’era tutto l’entourage del Pd locale, Vito Triassi e un suo sodale che gestì il chiosco di quel “bagno”. Una foto, “ingombrante”, che racconta degli strani rapporti che sono esistiti tra amministrazione e criminalità. Vito Triassi è morto nel Febbraio del 2019.

Clan Spada: una diramazione del clan dei Casamonica sul Litorale. Nei primi anni del nuovo millennio non avevano ancora un potere tale da potersi sedere al tavolo dei “padroni” di Ostia ma erano ( e sono) letali come serpenti a sonagli. Solo per una fortuita coincidenza il loro leader Armando Spada non è dietro a solide sbarre. Durante un intercettazione ammise un omicidio ma erano appena scaduti i termini dell’intercettazione stessa e non era quindi valida. Roberto Spada, Carmine Spada e Ottavio Spada sono all’ergastolo per il duplice omicidio di Galleoni – Antonini, orbita ex Banda della Magliana avvenuto nel 2011

A fare da diga, a questo dominio fuori controllo, la Polizia mette in campo due squadre: da una parte un team per investigare su killer e moventi dell’omicidio Frau e dall’altra una squadra mista tra uomini della Squadra Mobile e della Polaria.

La prima squadra annovera, stranamente, un ispettore che ha dei conflitti di interesse nel caso Frau, Antonio Paone. E’ infatti uno dei soci del bar Sisto e quindi anche socio di Cineland, la multisala dove il responsabile del parcheggio è proprio la vittima su cui indagare. Tra l’altro, lo stesso ispettore, tempo prima, durante l’operazione “Valleverde 2”, viene intercettato dentro al bar. Una situazione imbarazzante anche per lui, forse. Si dice, avesse fatto richiesta per essere esautorato dalle indagini su Frau. Ma, i dirigenti dell’epoca: dal capo della Mobile D’Angelo,al suo successore Intini, al capo della sezione criminalità organizzata Failla non ritennero il caso di estrometterlo dalla squadra che cercava i killer dell’ex “testaccino”. Una ricerca che non ha dato risultati visto che,  ancora oggi non ci sono risposte certe circa la morte di Frau.

Diverso il discorso per l’altra squadra della Mobile, guidata da Gaetano Pascale. Il loro compito fu quello di monitorare e raccogliere più informazioni possibili sulla situazione criminale del Litorale intero. E lo fecero bene, come vedremo.

Uno dei loro principali obbiettivi era il narcotraffico che legava Ostia con il Sudamerica e i canali che usava il crimine per far arrivare la cocaina nel Lazio. E’ proprio questa squadra di mastini che verrà piano piano smantellata e che vedrà la mala usare degli “abbagli” di alcuni dirigenti dell’epoca per difendersi dall’avanzare, a livello investigativo, di questi uomini. Indirettamente, chi voleva continuare a delinquere su ampia scala sfruttò “anonimi” delatori e strane forme di utilizzo di personale specializzato (esperti in infiltrazioni mafiose mandati all’ufficio immigrazione).

Generalizzando, ma non troppo, i clan si liberarono, in una volta sola dei mastini che indagavano su Ostia e Fiumicino ( alla squadra di Pascale era aggregata una squadra della Polaria con Piero Fierro ), uno dei poli di arrivo della cocaina a Roma.

Il serpente nell’Eden color cemento

Fu in questo panorama che si mosse un poliziotto. Una figura che risulterà connessa, coinvolta, connivente con i clan. Una divisa sporca , uno degli infedeli di questa storia. Forse il più infimo, il serpente di un giardino dell’Eden color cemento: Cesare Bove.

Chi l’ha conosciuto lo descrive come un personaggio pacioso, una faccia di chi vedresti bene nei panni di un parroco di provincia. Come se ci fosse una faccia giusta per i “corrieri“, come se anche i personaggi più distinti non potessero essere degli “spacciamorte”, tanto quanto i pusher di strada di Tor Bella Monaca o San Basilio.

Dal commissariato Colombo alla Polaria di Fiumicino. Una trasferimento che è “manna dal cielo”, per tutti quelli che vedono nell’aeroporto delle nebbie un modo per guadagnare qualche extra, poco pulito. E lui quel modo l’aveva trovato. Prima con orologi e preziosi, che faceva passare senza controlli doganali, poi con chili e chili di cocaina.

E’ nel 2003 che Cesare Bove, avvicinò un agente della Squadra Mobile di Roma proponendogli di iniziare a collaborare con lui per far uscire dal “Leonardo Da Vinci” qualche chilo di droga proveniente dall’Argentina. L’agente rifiutò e da quel momento, per caso o per intercessione della “serpe”, questo poliziotto onesto, vide la sua storia professionale prendere una piega diversa. Ma questa è un’altra storia.

Il Bove era avezzo a questo genere di traffici. Era scaltro e senza timore. La sua divisa, le sue mostrine erano un lasciapassare sicuro quando transitava con lo zainetto in spalla, con 4 o 8 chili di cocaina all’interno, proprio a fianco dell’ufficio di polizia giudiziaria dell’aeroporto romano. Nessuno si accorse mai che quell’uomo, in realtà, era uno dei più potenti corrieri dei clan ostiensi e di Formia. Una beffa che però dà la misura di quanto, chi dovrebbe controllare e sorvegliare “il ventre molle” di un sistema di sicurezza, non lo ha fatto con il rigore dovuto. Lasciando “maglie” troppo larghe.

Sarà proprio Bove a diventare il “ras di Fiumicino”, il capataz sempre pronto ad arruolare colleghi e finanzieri per controllare, prendere, nascondere, chiudere occhi e bocche davanti a trolley che arrivarono a pesare fino a 90 chili di “polvere bianca” pura.

Ma più aumentavano gli affari per il “ras”, più il cerchio della squadra della Polaria che indagava sul narcotraffico tra il Sudamerica e Fiumicino, si stringeva. E fu in quei giorni che, forse Bove o qualcuno del “Sistema”, fece recapitare una lettera anonima, diffamante, negli uffici della Quinta Zona ( L’ufficio che comanda la Polaria in Umbria, Lazio e Sardegna). La lettera,era rivolta contro la squadra che stava indagando. Cercò di gettare ombre sugli uomini della Polaria e ne bloccò l’operatività per mesi.

Quei “bravi ragazzi” di Fiumicino

Se guardi tra le torri di Babele di quella Roma che non trovi nelle guide turistiche. Se osservi i ragazzini nelle strade, schierati come soldati, sui loro scooter, che girano le vie con l’apparente nonsenso di chi sta a guardia di qualcosa o qualcuno.

Se guardi il passamano veloce dei pusher agli angoli di strade anonime o nei bar frequentati dalla “crema” della città, non puoi non chiederti come fa ad arrivare un fiume continuo di cocaina a Roma. Quanti “canali” di importazione affluiscono nella Capitale.

Non esiste via o quartiere dove non si trovi qualcuno che possa venderti il “pezzo” tagliato a 50 euro al grammo ( o a 25 in periodo di crisi economica).

Un giro continuo, in una città dove il fine settimana sono giorni come altri e il bazar dello droga è sempre aperto. Dove la richiesta è sempre altissima e l’offerta non può essere da meno.

A Fiumicino, all’ombra dei grandi aerei che atterrano di ora in ora, uno dei gate della cocaina è stato, per anni, gestito per le organizzazioni criminali da chi, questi cancelli della droga dovrebbe tenerli ben chiusi.

Sono due i momenti storici, negli ultimi anni, a segnare il corso del narcotraffico a Fiumicino per opera delle “divise sporche” della Guardia di Finanza e della Polaria. Il primo ha una sua connotazione specifica in un nome ben preciso: l’ex ispettore della Polizia di Frontiera Cesare Bove. Il secondo momento è rappresentato dai finanzieri Santacroce e Pinna che certificarono un “Sistema” che, come vedremo usò alcuni uomini delle Forze dell’Ordine come cavalli di Troia dentro al sistema di sicurezza degli aeroporti per trasportare grossi quantitativi di stupefacenti.  

La “Compagnia dei trolley

Come abbiamo visto, il deus ex machina di un “primo gruppo” di “doganieri della cocaina” è tale Cesare Bove, ispettore della Polaria in servizio ultradecennale all’aeroporto Leonardo Da Vinci.

Rispetto al 2003, l’aria paciosa di questo poliziotto si era trasformata in un fare deciso e determinato nei suoi scopi criminali. Nel 2010 anche il fisico “ da parroco di paese” si era scolpito e la sua chioma si era azzerata, per l’età che comunque avanzava. Gli affari andavano bene nella sua personale attività di doganiere della cocaina, tanto da dover assoldare altri uomini per poter far passare senza problemi ben più di quattro o otto chili di stupefacente.

Ad affiancarlo, fino al tracollo del settembre 2010, iniziò Pasquale Marciano, un militare della provincia napoletana in forza alla Guardia di Finanza. Fu lui che continuò l’opera di arruolamento con un commilitone graduato, il Maresciallo Massimo Callari, un siciliano di buona famiglia e di 10 anni più vecchio di lui. Il sottufficiale aveva un ruolo fondamentale nell’organigramma dell’organizzazione. Era capo drappello durante il turno serale, il migliore. Era il capo POS e arrivavano a lui direttamente gli allarmi dalla sala operativa o dal servizio antifrode su segnalazioni di stupefacenti o su controlli straordinari.

La separazione dalla moglie, le difficoltà economiche e il vivere in caserma lo portarono a stringere un’alleanza con questi istigatori a delinquere. Istigazione pericolosa ma ben retribuita. A suon di fascette da diecimila euro in banconote da 50, non promesse.

L’ultimo, in termini di tempo, ad essere arruolato in questa batteria di criminali in divisa fu un capoposto della Polaria, Francesco Mostarda, un rietino di Poggio Bustone.

Come il Maresciallo Callari, il Mostarda, era in difficoltà economiche visto i bisogni della ex moglie ( anche lei poliziotta). Le rate del mutuo della casa e tre figli in età scolare furono il trampolino che lo convinse a gettarsi in una scommessa perdente. Scriviamo questi dettagli non per giustificare ma per cronaca. Oggi ci sono migliaia di famiglie che affrontano crisi peggiori dei personaggi che stiamo raccontando, vivendole però con dignità, onestà e sacrificio.

Mostarda era ispettore. Aveva una mansione che risulterà arma a doppio taglio per “i bravi ragazzi” di Bove. Era preposto all’assistenza di personalità di spicco (i cosidetti Vip), onorevoli e magistrati in transito per l’aeroporto. Aveva a disposizione un’auto della Polaria che poteva arrivare senza controlli fin sotto le pance degli aerei dove vengono scaricati i bagagli.

A corredo di questi “infedeli” anche qualcuno che metteva a disposizione l’auto di servizio, in alcune occasioni particolari. Dei fiancheggiatori. Sarà una di queste “occasioni” che risulterà fatale per tutto il gruppo. Chi lasciava le chiavi delle auto con i colori della polizia ai “passacoca”, percepiva mille euro alla volta. Nel narcotraffico tutto ha un prezzo, ma quello finale è sempre una cifra a perdere.

Sono le 16.00 del pomeriggio del 21 Settembre 2010, il Tenente Giovanni Conti delle Fiamme Gialle in servizio alla squadra antifrode dell’aeroporto Leonardo Da Vinci riceve una strana comunicazione dal responsabile delle operazioni sottobordo di un volo Blu Panorama proveniente da Santo Domingo: una macchina della Polaria, con a bordo due persone, è arrivata durante le operazioni di scarico della stiva dell’aereo. Alla richiesta di spiegazioni e di identificazione, il passeggero è sceso e ha estratto un tesserino rosso, in carico alle Forze dell’ordine e al personale dell’aeroporto, spiegando che doveva controllare la presenza di alcuni bagagli. Subito dopo, tagliato il telo che ricopriva le valige dei passeggeri, estrae due trolley scuri mettendoli nel bagagliaio. Senza dire niente, l’auto di servizio esce dal varco numero 5 e si dilegua.

Il responsabile però non è convinto dell’operazione a cui ha assistito e complice l’irritazione per quel telo tagliato si segna il numero di targa della macchina.

Il tenete Conti, sentita questa storia chiede subito se c’è stata qualche richiesta di intervento sottobordo per quel volo ma la risposta dallo SVAD delle Dogane è negativa. Scattano subito le indagini. Gli unici indizi sono la targa, il vestiario della persona che ha estratto i due trolley da sotto il telo ( jeans , maglietta e cappellino con visiera) e il nome dello stesso, Pasquale. Troppe stranezze in questo racconto.

Le indagini sono rapide e con l’aiuto dei fogli di servizio e delle telecamere tutto l’arcano viene svelato in poche ore. Alla guida dell’auto c’era l’ispettore della Polaria Francesco Mostarda e al suo fianco il finanziere Pasquale Marciano, due della “batteria Bove”.

Nell’immediatezza dei fatti viene subito identificata anche la compagna di Mostarda, Stefania Mangone, impiegata all’AdR ( Aeroporti di Roma)e proprietaria della Citroen  C3 che aveva prestato al fidanzato davanti al Cerimoniale di Stato.

Incalzati da domande precise, i due “infedeli” cercano delle scuse adducendo a presunti piaceri al fratello di Mostarda stesso, ma la bugia ha la durata di una candela in un incendio. Dopo la visione dei video delle telecamere di sorveglianza, scattano le perquisizioni a casa del poliziotto e del finanziere.

Nel frattempo si ascolta anche una terza persona, il Maresciallo Massimo Callari, ripreso mentre riconsegnava le chiavi alla fidanzata di Mostarda. Il castello di carta costruito da Bove sta crollando velocemente e per lo stesso ex Ispettore, ora in pensione, scatta la perquisizione congiuntamente al maresciallo.

All’1,15 la macchina della fidanzata di Mostarda viene aperta e controllata. All’interno uno zainetto nero con banconote di vario taglio per un totale di 80.250 euro. Non è “la pistola fumante” ma , in quel momento, è motivo per una serie di interrogatori che apriranno un varco tra i componenti dell’organizzazione.

Il gioco dello “scarica barile” inizia subito quando vengono chieste spiegazioni di quei soldi e, per arrivare alla testa del gruppo, non ci si mette molto. Tempo ventiquattrore ore e tutto prende dei contorni inquietanti. Ma dove sono finiti quei trolley? Cosa contenevano?

L’unico a poter dare delle risposte precise è Cesare Bove che però ha deciso di darsi alla latitanza preventiva. Il capo di questo drappello di “infedeli” è navigato. La sua grana criminale si è sviluppata negli anni, in proporzione agli incassi “cash money” del traffico di stupefacenti.

Aveva usato tutte le rotte e le linee aeree possibili con il Sudamerica, l’ex Ispettore della Polaria, per i suoi traffici. Dalle Linee Argentinas alla Livingston dall’aeroporto La Romana di Santo Domingo. Sempre a libro paga delle organizzazioni ostiensi e romane che, tradotto in nomi e clan, voleva dire Fasciani, Senese e camorra. A Bove piaceva vivere bene e senza tanta fatica. Gli piaceva il ruolo da manager e infatti pensò bene di crearsi una seconda vita in Svizzera, dove depositava gran parte dei suoi cospicui ricavati.

Se in Italia era l’Ispettore della Polaria, quando passava il confine diventava una sorta di broker finanziario con tanto di autista-taxista, tale Shamir che lo aspettava a Campione D’Italia dove si fermava a giocare al Casinò, alla roulette.

La sua parabola discendente, praticamente in picchiata, iniziò quel pomeriggio e dopo essere stato arrestato a Roma nelle vicinanze di Via Cola di Rienzo, le porte del carcere si aprirono. Nell’attesa dei vari gradi di giudizio la sua posizione si aggravò quando, nel Novembre del 2012, i carabinieri del Nucleo Investigativo di Frascati, trovarono nei terreni di proprietà del fratello un piccolo arsenale nascosto dall’ex Ispettore. Una pistola Smith & Wesson calibro 9 con caricatore, una pistola Atak con matricola abrasa con due proiettili nel caricatore, 150 proiettili calibro 9 e due caricatori vuoti di Kalashnikov. Probabilmente una “retta” per i clan.

Ma la domanda che tutti si porranno è: cosa contenevano quei trolley recuperati dalla pancia dell’aereo della Blu Panorama? Dove sono finite? Senza il corpo del reato, come si è potuto incriminare queste “divise infedeli”? Domande lecite come lecito è chiedersi come è possibile che, per anni, nessuno si sia accorto che Cesare Bove era una gramigna che cresceva a dismisura all’interno della polizia di frontiera. Per anni ha saputo coinvolgere colleghi e finanzieri dentro un gioco che, come vedremo, ha fatto transitare almeno 5 volte il peso della cocaina sequestrata in dieci anni di operazioni della Polaria. E’ una storia degna di essere seguita con attenzione, è una storia che riserverà dei colpi di scena e sarà avvolta dal mistero e dalla nebbia perenne, come nelle notti d’inverno.  

Il sistema del “Sistema”

La confessione

Quando parliamo di “sistema” nell’ambito del narcotraffico a Fiumicino non lo facciamo per puro esercizio lessicale. Nell’ambito delle inchieste che, per due volte a distanza di pochi anni, hanno svelato nomi e cognomi di divise infedeli al soldo delle grandi organizzazioni criminali, quello che risulta evidente è la ripetizione di uno schema preparato per avere garanzie. Prima, di affidabilità dei personaggi corrotti e successivamente della loro efficienza. Come la selezione delle risorse umane di una qualsiasi azienda.

E’ un “sistema” che si adatta alle situazioni, al momento, alle necessità.

Perché si possa definirlo tale, un sistema ha bisogno di estensione territoriale e soprattutto di continuità. Quello che è emerso a Fiumicino è un way of trade, un modo di trafficare basato sulla corruzione di rappresentanti delle Forze dell’Ordine e non solo. Un metodo che è rimasto quasi “silenziato” perché forse troppo imbarazzante o forse perché, nel tempo, le informazioni avute potevano portare lontano. Avrebbero potuto aprire altre indagini. La verità sta nel mezzo, forse.

Quando fu scoperto il “gioco” di Cesare Bove & Co. non si poteva immaginare che quel traffico era stato sviluppato in svariati anni. E nessuno aveva pensato che aveva raggiunto la sua massima operatività negli ultimi mesi di attività, per mano di questa “batteria” di trafficanti in divisa.

Come abbiamo visto, tutto il quadro d’accusa di quel giorno di Novembre del 2010 era basato su due trolley estratti dalla pancia dell’aereo, un borsello con oltre 80.000 euro in contanti, soldi non giustificati trovati a casa degli inquisiti Mostarda e Marciano, la latitanza preventiva di Bove, dei video di sorveglianza, delle intercettazioni e le mezze ammissioni uscite durante gli interrogatori.

A processo, non ci sarebbe stata la classica “pistola fumante” che avrebbe permesso delle condanne esemplari e tantomeno l’allargamento dell’inchiesta ai fruitori finali di questo traffico: la criminalità organizzata ostiense e quella camorrista di Gaeta.

A sparigliare le carte, anche contro il parere del suo avvocato, fu il maresciallo della Guardia di Finanza Massimo Callari.

E’ il 4 Novembre 2010, alle 10.38, quando davanti al Pm Edmondo De Gregorio, al colonnello Frattini, al Tenente Colonnello Aiello e al suo avvocato Alessandro Maria Tirelli, Callari inizia l’interrogatorio fiume che svelerà “il sistema”, il modus operandi e molto altro dei “bravi ragazzi” di Cesare Bove.

E’ un verbale pesantissimo quello che sottoscrive il Maresciallo della Guardia di Finanza. Lo stesso avvocato lo avvertì: “Se te ne stai zitto te la cavi con 3/4 anni. Non c’è un grammo di cocaina sequestrato”. Una giusta osservazione quella del legale. Che non venne ascoltata dal militare.

In quelle pagine sottoscritte da Callari, parola per parola, non c’era solo il racconto della storia di quei due trolley con quasi 90 chili di cocaina, ma ben altro. C’erano una quarantina di operazioni in cui lo stupefacente passò per mani che avevano giurato fedeltà alla Repubblica mentre stringevano valige piene di droga.

Di quei trasporti, solo dieci furono verificati e messi agli atti. Ma tanto bastò per disegnare lo schema criminale.

Dopo aver spiegato come Cesare Bove svolse, per anni, il ruolo di “doganiere della cocaina “ in solitaria, Callari parlò del “reclutamento” dei “complici” e di come si verificasse l’affidabilità degli stessi.

I falsi allarmi

Per capire la predisposizione e il sangue freddo di chi si apprestava ad entrare in quel “lucroso” gioco, la modalità era sempre quella: allertare tutti dell’arrivo di un carico. Anche se quel carico era “fantasma”. Non esisteva.

E’ quello che hanno fatto Bove e Marciano per ben tre volte con il Maresciallo Callari nel gennaio 2010. Tre test per verificare se dietro a quell’uomo in difficoltà economiche non si nascondesse un  collega “infiltrato”, pronto ad arrestare tutti.

Non erano prove a perdere. Ogni test veniva pagato con cinquemila euro in contanti, da Bove. Sia a Marciano e sia a Callari. Apprendistato a peso d’oro nella criminalità.

E’ ai primi di Febbraio del 2010 che le cose iniziarono a diventare vere e serie. E i chili a passare erano di cocaina. Purissima, direttamente da Santo Domingo.

I viaggi

Da fine Febbraio a Settembre 2010, le cose filarono lisce per i “bravi ragazzi” del Leonardo Da Vinci. La cadenza dei carichi che arrivavano dall’aeroporto dominicano “La Romana” era regolare e senza troppe complicazioni. I trolley con “ l’oro bianco” volavano sulla linea della Livingston Energy Flight(successivamente fallita e rinata su altre tratte), imbarcati da personale che successivamente fu arrestato dalla polizia locale.

Il loro orario preferito, il loro piano perfetto implicava il volo della sera. Era in quel momento che il Callari, quando era di turno, svolgeva il ruolo chiave di capo Pos. Era colui che veniva messo al corrente di controlli straordinari o segnalazioni di presenza di stupefacenti nei voli, una rotella fondamentale nell’ingranaggio.

Il primo pericolo da evitare era quello dei voli diurni e diretti dal Sudamerica. Erano e sono i più controllati dalla Guardia di Finanza. Un pericolo che, quando il volo serale da “ La Romana” venne sospeso, (circa a Giugno 2010) trovò subito una soluzione involontariamente “regalata” dai regolamenti degli aeroporti.

Il trucco, la falla nei trasporti aerei, in questo caso, è una: lo scalo.

Bisogna sapere infatti che se il volo INTERNAZIONALE da Santo Domingo arriva a Milano Malpensa, fa scalo senza scaricare i bagagli e riparte per Roma, sugli schermi di Fiumicino risulterà come volo NAZIONALE. Questo implica un 50% in meno di controlli da parte del servizio antifrode delle Fiamme Gialle. Cosa risaputa dalla criminalità organizzata e ovviamente anche da chi, come la banda Bove, doveva sfruttare ogni occasione di “controlli allentati” o addirittura inesistenti. 

Chiaramente a Malpensa, controlli campione sui bagagli stivati venivano effettuati,ma vuoi il posizionamento o vuoi la “fortuna”, quei narco-trolley riuscivano a passare inosservati, sempre.

Ma il Sistema, come diceva Callari, non era qualcosa che riguardava solo Fiumicino. Malpensa, Bologna e un terzo scalo di cui non ricordava la città, era gestito da altre “batterie” di infedeli. Forse non composte da forze dell’ordine ma da inservienti degli aeroporti. Questo rimase e rimane un dubbio, un mistero.

Non tutte le informazioni erano a disposizione per i soci di Bove. E l’ex Ispettore della Polaria era bravo a tener tutti compartimentati in cellule staccate l’una dall’altra.

Le informazioni sull’Organizzazione erano frammentarie anche per chi lavorava a queste operazioni di “import” illegale. Di certo si sapeva che tutta la cocaina che entrava a Fiumicino era diretta alla criminalità ostiense o romana, con nomi conosciuti dalle cronache nazionali: Fasciani, Senese e molti altri.

Per la Banda Bove, il “sistema” si fermava al loro boss che si occupava dei pagamenti e del trasporto della cocaina fino alla “testa del serpente”: l’Organizzazione.

Gestendo un traffico di dimensioni milionarie, l’Organizzazione, pensò bene di fornire anche dei cellulari usa e getta per facilitare il riconoscimento dei narco-trolley. Ad ogni viaggio arrivava puntuale l’MMS con la foto del bagaglio da ritirare, uno sguardo per imprimerlo bene nella memoria e il cellulare finiva distrutto insieme alla scheda.

Chili di cocaina che venivano trasportati lungo i corridoi dell’aeroporto con il pericolo di essere scoperti. Un pensiero fisso nella mente del maresciallo della Finanza mentre, dai trolley che portava, usciva nitido l’odore dello stupefacente. Ma la divisa e i gradi l’hanno sempre “salvato”, insieme al fatto che far passare bagagli o personaggi (vip e meno vip) senza controllo è una “cattiva abitudine” che ha il sapore dello scandalo per l’aeroporto romano. Abitudine riservata ad amici e amici degli amici. Serve sempre fare un piccolo piacere se poi si traduce in gratitudine sotto varie forme.

Un suicidio e uno scandalo all’insegna del silenzio

Squilla il telefono. Dall’altro capo della cornetta risponde una voce che sembra lontana ma è solo a poche centinaia di chilometri da dove chiamiamo. E’ l’avvocato Tirelli, l’ex legale del Maresciallo della Finanza Massimo Callari, la “gola profonda” della “Banda Bove”, gli “infedeli” di Polaria e Fiamme gialle che hanno lavorato per i narcotrafficanti del litorale romano facendo transitare chili e chili di cocaina.

Avvocato, abbiamo saputo da fonti interne all’aeroporto che il Maresciallo Callari si è suicidato. Ce lo conferma?

Il silenzio dura secondi. Non un silenzio di chi cerca di nascondere qualcosa, non il mutismo di chi è preso alla sprovvista rispetto a una domanda che non si doveva fare. Il silenzio dell’Avvocato è quello di chi rimane impietrito davanti a una notizia che non si aspetta. O che non avrebbe voluto sentire.

Quello che rimane della conversazione con il legale sono considerazioni personali che rimarranno nella cornetta del telefono. Come in un confessionale.

Massimiliano Callari era un siciliano di buona famiglia, lavoratori onesti. Lui una brava persona che, come molte altre, trovandosi con problemi familiari, ai suoi occhi, insormontabili, ha scelto la via più sbagliata. Quando, nel Settembre del 2010, il castello dell’”impero Bove” iniziò a creparsi, fu l’unico che ebbe il coraggio di prendersi le proprie responsabilità e far luce sulle vicende che avevano fatto scendere una coltre di nebbia sull’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino. Una nebbia che durava da anni.

Quello che si può definire “un colpo di reni”, un sacrificio che poteva costargli molto caro, in realtà è stato il gesto di chi aveva vissuto una vita senza macchie, con dogmi ben precisi, da militare che aveva giurato davanti a una bandiera.

Non era stata presa con le mani nel sacco la Banda Bove. O per meglio dire, le mani, nel sacco c’erano ma senza niente dentro. Come abbiamo visto, quando l’ispettore Mostarda e il finanziere Marciano furono scoperti dopo aver portato via due trolley dalla pancia di un volo Blu Panorama proveniente da Santo Domingo, del contenuto dei bagagli non si sapeva nulla. Si poteva solo presumere che contenessero cocaina. Il “carico” infatti era già sparito nella macchina dell’ex Ispettore Cesare Bove. Il quale,  la sera stessa doveva consegnarlo all’Organizzazione. Non c’era dunque la “pistola fumante”, c’erano mezze ammissioni, denaro contante che non poteva essere giustificato. Tutte prove che sarebbero state spazzate via in Tribunale o che, al meglio, avrebbero portato a pochi anni di condanna.

Ma Callari era diverso dagli altri della “batteria”. Contro i consigli del suo avvocato parlò e non si fermò. Anche quando, per ammissione del suo legale, ai suoi interrogatori iniziarono a presentarsi parecchi ufficiali della Guardia di Finanza e qualche uomo del Ministero degli Interni non meglio identificato. Non raccontò barzellette, raccontò il suo anno “all’inferno” fatto di chili e chili di cocaina che faceva passare sotto gli occhi di colleghi e di poliziotti. Quaranta furono gli episodi che raccontò. Solo dieci quelli che trovarono riscontro e che furono verbalizzati.

Il clima, in quei giorni, era talmente teso che si tagliava con il coltello. Dopo lo stupore, intorno a Callari, iniziò a serpeggiare paura, terrore. Non furono solo le sensazioni dell’avvocato, avezzo a processi di camorra e criminalità organizzata. Furono i comportamenti dei parenti stessi e delle persone a lui più vicine a dare il senso a quelle parole.

Paura e terrore che si trasformarono in un netto distacco da Callari, prima della sua ex fidanzata e poi dei suoi parenti. Pagarono la parcella dell’avvocato e sparirono. Aneddoto che la dice lunga sulle sensazioni che serpeggiavano in quel momento. Chiese lo status di collaboratore per tutte le informazioni che aveva dato in quei verbali, ma non gli venne concesso.

Se di Cesare Bove si parlò anche qualche tempo dopo, per delle armi ritrovate nel giardino della casa del fratello, di Massimo Callari non si seppe più niente. Gli “infedeli” furono condannati e il loro boss rinchiuso per 12 anni.

Quando quest’anno scoppiò il caso della Dama Bianca, alias Federica Gagliardi, anche questi fatti tornarono lentamente a galla. Una fonte interna all’aeroporto ci parlò di quella “batteria” di “divise sporche” e di un maresciallo suicidato. Non poteva essere che Massimo Callari.

Un suicidio dentro la sua casa, in uno dei paesi che circondano Roma. Si impiccò. Pochi mesi prima che quella “bionda” signorina, con 24 chili di cocaina nel trolley, scendesse tranquilla le scalette dell’aereo. Convinta, forse, di passare inosservata. Forse sicura che, ad aspettarla, ci fosse qualcuno in divisa che la accompagnasse fuori bypassando i controlli. Una storia vista e rivista decine di volte.

Un suicidio che vogliamo definire strano, ma non inaspettato, forse. E non per gli stress o le forme depressive con cui, probabilmente, l’ex Maresciallo ha convissuto in questi anni. La stranezza è che questo gesto estremo è stato fatto da chi ha aperto la porta su un mondo criminale invisibile, scoprendo “buchi” enormi nella rete di sicurezza e controllo di uno degli hub italiani ed europei di maggior peso: Fiumicino

Non vogliamo pensare male e non lo faremo. Questa morte però, con i misteri mai chiariti sull’affaire Dama Bianca, lascia l’amaro in bocca e qualche dubbio.

Dubbi non li abbiamo invece quando parliamo di una piccola analisi che abbiamo fatto sull’intera vicenda legata alla sicurezza dell’aeroporto. Dalla Banda Bove, al prossimo caso che andremo a vedere di “divise sporche” dentro l’aeroporto Leonardo Da Vinci, ai dati forniti dalla Quinta zona della Polaria quasi 12 mesi fa.

I dati che raccontano uno scandalo

( che scandalo non sarà)

Per l’intervista al Dott. Antonio Del Greco, capo della Quinta Zona della Polaria per il Centro Italia, chiesi che mi fosse preparato un report sulle operazioni antidroga effettuate negli ultimi dieci anni da questa struttura che è composta da 800 uomini, nella sola Fiumicino.  Il risultato lo confrontai con la cocaina importata dalla Banda Bove nei dieci mesi di operatività in cui ci fu il Maresciallo Massimo Callari. Tenendo conto che, dentro all’aeroporto, oltre alla Polaria opera anche la Guardia di Finanza e i Carabinieri, i risultati furono sconfortanti se, come ha definito la Dea americana, l’aeroporto di Fiumicino è uno dei “boccaporti principali” per l’arrivo di cocaina nel Sud Europa.

Vediamo nel dettaglio le operazioni effettuate dalla Polaria nell’ultimo decennio e i risultati ottenuti.

Operazione Black Rain e Operazione Anco Marzio: 24 ordini di custodia cautelare, sequestrati 75 kg di hashish. A supporto della Squadra Mobile di Roma

Operazione Progetto Valium 1 e 2 : 32 ordini di custodia cautelare, sequestrati 46 chili tra cocaina ed eroina. A supporto dello Sco

Operazione Progetto Hermes: 9 ordinanze di custodia cautelare, sequestrati 37 chili tra cocaina ed eroina. A supporto dello Sco

Operazione Turn Over: 7 ordinanze di custodia cautelare, sequestrati 9 chili di cocaina. A supporto della Squadra Mobile di Perugia

Operazione Black Passengers: 15 ordinanze di custodia cautelare, sequestrati 15 chili di cocaina. A supporto della Squadra Mobile di Perugia

Operazione Black One, 18 richieste di custodia cautelare , sequestrati 3 chili di cocaina. A supporto della Squadra Mobile di Perugia

Operazione Heavy Food: 18 richieste di custodia cautelare. Operazione interna senza sequestri di sostanze stupefacenti

Operazione La Romana: 5 arresti tra le forze dell’ordine ( Due poliziotti e tre finanzieri, la Banda Bove). Operazione interna senza sequestri di stupefacenti

Totale persone arrestate: 79. Le sostanze stupefacenti sequestrate sono state così suddivise: Eroina, 22 Kg – Cannabinoidi 25 Kg – Cocaina 175 Kg ( in realtà solo 107 kg) – Efedrina 1,5 Kg e droghe sintetiche 0,200 grammi

Non tenendo conto dell’errore sui cannabinoidi sequestrati ( 75 in una singola operazione e 25 nel riassunto finale), è importante vedere quanta cocaina ha lasciato passare la “batteria” di Bove ( secondo il verbale di Callari) in soli 8 mesi di attività

Febbraio 2010: 3 Kg

Febbraio 2010: 8 kg

Marzo 2010: 10 Kg

Marzo 2010: 15 Kg

Aprile 2010: 20 Kg

Luglio 2010: 60 Kg

Agosto 2010: 40 Kg

Settembre 2010: 80 Kg

Settembre 2010: 80 Kg o più ( fine dei giochi)

Totale : 316 Kg in otto mesi

Seguendo il documento che ci ha consegnato la Quinta Zona, di sola cocaina, le “divise sporche” hanno controllato il transito del triplo di sostanza stupefacente che la sola Polaria ha sequestrato in 10 anni. Il tutto in soli otto mesi. Nel conteggio dei sequestri è giusto ricordare che esistono i famosi “ovulatori” che non sono stati considerati perché quello che riescono a trasportare nello stomaco sono quantità risibili. Allo stesso modo non abbiamo conteggiato tutti i chili che il solo Cesare Bove, prima del 2010, ha trafficato con l’Argentina. Ma parliamo sempre di 5 uomini rispetto a una struttura di 800 agenti operativi.

Imbarazzante.

Come imbarazzante è la modalità con cui, Guardia di Finanza e Polaria, lasciano passare senza controlli i vip o gli amici e gli amici degli amici. Soprattutto dei “potenti di turno”. Una forzatura alle regole ferree dell’aeroporto che lascia sbigottiti e che alimenta tantissimi dubbi sulla gestione degli agenti e dei militari e anche sull’effettivo grado di sicurezza che vige al Leonardo Da Vinci. E probabilmente non è il solo aeroporto che segue queste “cattive tradizioni”.

Non è uno scandalo di ieri. E’ uno scandalo di sempre. Inutili tutti gli sforzi per contrastare il narcotraffico se poi è così facile far passare chili e chili di droga. E questo lo sapeva bene anche Federica Gagliardi.

Cosa rimane della storia della “Banda Bove” ? Pochi articoli di giornale e questa inchiesta che non ha la presunzione di additare ma che può aumentare la consapevolezza che non è più tempo di mettere la polvere sotto il tappeto. Come è giusto sottolineare il “pentimento” di Massimo Callari, un sacrificio pagato con un suicidio che forse mette fine a questa vicenda. Per buona pace di molti.

Lascia un commento